A
Milan, anca i moron fann luga
Chi definiva
Milano la "città del miracolo economico" non affermava
nulla di nuovo. Lo dimostra questo vecchio detto che significa letteralmente:
"a
Milano, anche i gelsi fanno luva". Per
comprenderlo bisogna ricordare che il gelso era una pianta tradizionale
della Lombardia, caratteristica
del suo paesaggio, coltivata al fine di fornire ai bachi da seta (i bigatt)
le foglie con le quali si nutrono. Oggi i gelsi vanno scomparendo, sostituiti
dal pioppo canadese che si usa per la
fabricazione della carta, ma se ne vede ancora qualcuno sparso qua e là
in Lombardia. Il
gelso ha un legno gramo e non dà frutti apprezzabili; dire perciò
che:
"a Milano fanno luva anche i gelsi", significa affermare
che Milano è città capace di ricavare frutto da tutto, capace
di far miracoli, sintende col coraggio, col lavoro e con la capacità
organizzativa
tipica dei milanesi.
Dunque, anche in fatto di miracoli, non vi è nulla di nuovo.
Schiva
loliva
Un modo di
dire vecchiotto ed ora caduto decisamente in disuso. Settantanni
or sono era tuttavia corrente fra i milanesi. Vuol dire: evita guai! È
un invito a stare accorti e a non cacciarsi nelle grane. Lorigine
del detto si rifà al carrozzone dei carcerati che, un tempo, atraversava
la città per portarli al Tribunale penale, chera in Piazza
Beccaria, oppure alla Corte di Assise, chera in via della Signora.
Questo carrozzone, a quattro ruote, tirato da due cavalli, era appunto
di un colore verde oliva. Munito di grate, alle quali talora si affacciavano
i carcerati, diffondeva intorno a sè un senso di gelo e talora
di angoscia.
In relazione al colore del carrozzone pare sia sorto il detto popolare
"schiva loliva", che era profferito come un monito: attenti
a non finire nel carrozzone dei detenuti! Attenti ai guai.
Provate a
farvi il segno della Croce usando il gomito invece della mano: vedrete
che è piuttosto difficile, bisogna essere disarticolati quasi come
un contorsionista, il che è piuttosto eccezionale.
Da un singolare traslato, che sovverte leffetto con la causa,
deriva questo detto milanese che si usa per chi se lè cavata
da un guaio con eccezionale fortuna; in tal caso si suol dire che quel
fortunato può... segnass col gombet, ossia può ringraziare
con un gesto straordinario, quale è il segno della Croce fatto
col gomito, la Provvidenza che lha aiutato in un modo altrettanto
non comune.
Dagh
el color ai polpett
Le polpette
sono, di solito, il rimedio della cuoca. Si fann sovente con gli avanzi,
messi insieme o come si dice in cucina legati con uovo,
farina o magari pane grattugiato.
Dunque sono un piatto di poco pregio e che non viene mai accolto, a tavola,
con particolare esultanza. Per rendere più gradite le polpette,
la cuoca accorta le presenta con aspetto incoraggiante, dorato, le rosola
nel burro per dar loro un colore. Dunque, già in cucina, "dagh
el color ai polpett" ossia dar colore alle polpette, significa conferire
una bella apparenza a un cibo che lascia piuttosto a desiderare quanto
al sapore e alla sostanza.
Ma questo detto, uscito di cucina, ha assunto in milanese anche un significato
metaforico, e lo si usa commentando il gesto o il discorso di chi vuol
fare apparire buona una cosa cattiva o quantomeno mediocre.
Ciò accade qualche volta per un venditore che decanta il pregio
della sua merce al compratore, e accade altresì per chi adorna
di frasi colorite un discorso povero di nesso e di sostanza.
A questi imbonimenti, commerciali o retorici, gli ambrosiani dànno
poco credito; quando incontrano dei furbastri che tentano di suggestionarli
con belle e vacue parole, si strizzano locchio e dicono fra loro
che non basta "dagh el color ai polpett".
La
bocca l'è minga stracca se la sa nò de vacca
Questo detto
è sicuramente molto "colorito" e popolaresco, ma in fin
dei conti la vacca è poi lonesta mamma del vitello e il significato
del detto è tanto lindo, che è giusto citarlo.
È infatti un detto conviviale: vuol dire che un pranzo non è
soddisfacente, se non comprende anche il formaggio, che si fa col latte
munto dalla vacca.
Se si pensa alle glorie, in fatto di formaggio, della campagna lombarda,
che annovera fra laltro il gorgonzola, il taleggio
e il lodigiano (chiamato oggi grana padano), si può riconoscere
che era giusto che questo detto nascesse nei nostri paesi.
È
sempre accaduto, e avviene tuttora che qualche baldo giovanotto, ricco
di ambizioni, ma povero in canna, pensi di trovare una prima, facile sistemazione
attraverso le nozze, ossia sposando una donna ricca, che quantomeno gli
tolga langoscia del problema di campare.
In questo caso a Milano si dice che quel giovanotto "lha
taccaa sù el capell".
Var
pussee la lappa che la zappa
La lappa
è la chiacchiera, labilità nel raccontare, nel fiorire
un aneddoto, nel valorizzare le cose che si dicono e quindi se stessi,
e questo detto, scaturito dallantica saggezza del popolo milanese,
ammonisce che le chiacchiere nella vita valgono sovente
più dei fatti, più del lavoro, anche se si tratta del faticoso
lavoro di chi adopera la zappa.
Vi è in questa espressione, fiorita da un popolo laborioso come
quello di Milano, un filo di amarezza per i disinganni che sono sempre
venuti a quelli della zappa, da parte di chi si valeva... della lappa.
Mesterasc.....danerasc
È
un modo di dire tipicamente ambrosiano per esprimere sinteticamente il
concetto che i mestieri più volgari fanno guadagnare molti soldi,
dal quale concetto, sotto sotto, risale anche la conseguente riflessione:
chi vuol guadagnare bene non deve orientarsi verso attività elevate
e spirituali, ma piuttosto verso attività vili e apparentemente
spregevoli.
È bene tuttavia tener presente che il mesterasc milanese non
è vile in senso morale, ma fisicamente: sporca le mani, non lanimo.
Tutt
ven a taj, anca i ong per pelà laj
Vi è
in questo detto lo spirito popolare ambrosiano che è portato a
valorizzare tutto, anche le cose che sembrano inutili, come le unghie
delle nostre mani.
Vengono
buone esse pure, dice il popolo, magari per piccole, modeste faccende.
Tale pensiero è felicemente sintetizzato nel detto "tutt ven
a taj, anca i ong per pelà laj" che letteralmente significa:
"tutto arriva a proposito, anche le unghie per sfogliare laglio".
La pidria
è un grosso imbuto (pedrioeu) che non sta in piedi, se non è
rovesciato; diciamo che la sua naturale
posizione di riposo è proprio quella di essere a rovescio, col
bordo in terra e con la punta in alto. Invers in milanese significa rovesciato
e laggettivo si usa tanto nel significato fisico, quanto in quello
traslato, ossia morale, che vuol dire maldisposto, di pessimo umore.
Dalla fusione della particolarità della pidria, che si posa
a rovescio e dal significato dellaggettivo invers, è venuto
questo icastico detto milanese per cui si suol dire "Lè
invers come ona pidria" quando sincontra una persona che è
di umore nerissimo, quasi inavvicinabile.
Fà
stringh de la pell
La stringa
è quel laccio che si usa per le scarpe e che può essere
di cotone, di refe e anche di cuoio. ridurre la pelle in stringhe significa
perciò tagliarla, stirarla, farne luso più utilitario
possibile, in modo che nulla vada perduto e tutto sia utilizzato al millimetro.
Da ciò e forse da qualche fatto occasionale del quale si è
perduta la memoria, viene il detto milanese "fà stringh de
la pell".
Che vuol dire: ha guadagnato, ma ha lavorato senza risparmiarsi. È,
in fondo, il segreto del successo dei milanesi.
Lha
mangiaa la foeuja
È
un detto arguto che deriva dalla esperienza agricola e più precisamente
dallallevamento dei bachi da seta. La sua origine sta nel fatto
che il baco da seta, quando ha mangiato la foglia del gelso ed è
ben nutrito, si anima, si arrampica lungo gli sterpi (el vaa sù...)
e va a formarsi il bozzolo.
Da questo evolversi del baco dopo aver mangiato le foglie del gelso, è
venuto, per un sottile ma intuitivo traslato, il detto "lha
mangiaa la foeuja!" che vuol dire: si è evoluto, ha fatto
un progresso, vale più di prima.
Praticamente lo si usa per chi, non avendo inizialmente intuito una
situazione, ad un tratto ne percepisce il significato o ne scopre il trucco.
Miée
che sècca? ... marì che pècca!
È
un detto antico, e il suo significato letterale è palese e forse
la sua delicata ironia non manca di un vasto fondo di verità. Quando
una moglie diventa troppo brontolona e intollerante finisce con allontanare
da sè il marito e con linvitarlo, involontariamente, a cercare
altrove magari al bar o in altri luoghi quella pace che
gli è negata in casa.
Meglio essere dolci e comprensive: un sorriso è sempre più
efficace sorridete anche quando vorreste protestare. Vincerete più
facilmente la partita.
On
trema-coa
Il "trema-côa"
sarebbe la cutrettola, che in terra zampetta dimenandosi comicamente e
agitando, ad ogni passo, la piccola coda.
Da ciò il detto: "trema-coa"
viene applicato a chi è impacciato nei movimenti ed anche a chi
è moralmente irresoluto.
Semm
in man del pojan
Il pojan,
detto anche pojana, è il nibbio, uccello rapace, col becco adunco
e con artigli ghermitori. Lo si vede sovente nelle campagne lombarde:
gira paziente nel cielo in cerca di prede sulle quali si avventa con impeto
repentino. Nel gergo popolare el pojan è lo strozzino, luomo
senza scrupoli, avido, spietato.
Quando si trovano alle prese con un usuraio o con chi non ha ritegno
nel pretendere compensi esosi o cose non dovute, valendosi di una situazione
che lo favorisce, i milanesi dicono; "Semm in man del pojan",
che vuol dire: "Siamo come passeri negli artigli del nibbio, non
abbiamo speranza di cavarcela senza danno".
Lha
pitturaa el ciel de lArèna |
|
LArena
di Milano, il grande anfiteatro costruito nellepoca napoleonica
dallarchitetto Canonica per i giuochi, anche di quei tempi, ha come
tetto il cielo.
Da ciò è venuto il vecchio motto milanese lha pitturaa
el ciel de lArèna (letteralmente: ha dipinto il cielo
inteso come soffitto dellArena).
Si usa per commentare lazione di chi si atteggia a persona importante
e fattiva, mentre in sostanza è uno sconclusionato, che non fa
nulla e, se qualcosa fa, si tratta diniziative inutili, irrealizzabili,senza
costrutto.
On
magazzin de frecass
Il magazzino
è sempre importante per il milanese, che ha il senso innato del
commercio e una particolare considerazione per quellammasso di cose,
che si definisce appunto con la parola magazzino, ed è la ricchezza
di un commerciante. Tuttavia esiste unaccezione scherzosa di codesta
parola, che capita ancora di cogliere sulle labbra di qualche vecchio
ambrosiano:
"te set on magazzin de frecass".
Vuol dire sei un fracassone, che fai tanto rumore per nulla, senza
ragione, senza conclusione, senza quella sostanza che dà valore
a un vero magazzino.
Fà
maron
La parola
maron, in questa accezione, non deriva nè da marra che è
la zappa, né da marrone che è la castagna, deriva invece
dal verbo inglese to mar, che significa smarrirsi, sbagliarsi.
Perciò in milanese quando si vede qualcuno che commette un errore
si suol dire: "lha faa maron".
Ma occorre avvertire che in questo caso lerrore non è
labbaglio innocente di chi scambia una cosa per unaltra, è
piuttosto la topica di chi sperava di farla franca ed è stato invece
scoperto.
Anca
lù el gha la bocca de travers!
Il significato
metaforico di questo detto è quanto mai arguto, perché allude
a chi richiede un compenso che non sarebbe correttamente giustificato,
a chi come si dice oggi comunemente vuol "mangiare"
(vedi tangente) su un affare, su una concessione, su un consenso per il
quale nulla sarebbe dovuto.
È un detto antico, che indirettamente amonisce come labitudine
delle bustarelle e delle mangerie non sia affatto un risultato dei nostri
tempi, ma una usanza secolare, con laggravante che ora è
molto più praticata a scapito delle persone o aziende oneste.
A Milano poi in questa materia, gli spagnoli hanno lasciato ricordi
memorabili; basti il fatto che le mura, dette appunto degli spagnoli,
quelle che formavano i vecchi bastioni, furono costruite dal governatore
Gonzales al fine dichiarato di proteggere la città, ma anche col
recondito scopo di lucrare pesanti compensi dagli appaltatori dei lavori
che regalarono al governatore, fra laltro, la famosa villa Simonetta.
Anche
il governatore Gonzales aveva dunque... la bocca de travers!
Hin
taccaa come asett e rampin
Lasett,
in milanese, è il piccolo anello nel quale si aggancia un minuscolo
uncino (rampin) in modo che insieme si congiungano e, prima che la tecnica
moderna inventasse le ormai famose cerniere "lampo", lasett
e il rampin erano strumenti abituali per agganciare i lembi dei vestiti,
specialmente nellabbigliamento
femminile.
Da questo impiego sartoriale, indubbiamente efficiente, perché
teneva saldamente uniti i tessuti, è venuta una singolare applicazione
metaforica, perché a Milano, quando si vedeva una coppietta
inseparabile, che camminava per strada tenendosi stretta a braccetto,
si diceva:
"hin taccaa come asett e rampin".
Mhann
faa sù!
Il detto
originale milanese è: "mhann faa sù a remissell".
E occore avvertire, per chi non lo ricorda, che il remissell è
il gomitolo; dunque chi è stato avvolto da un filo come un gomitolo
non può più muoversi, nè difendersi, nè quasi
fiatare. Soltanto i vecchi milanesi usano ancora il detto nella sua estensione
completa; col tempo il remissell è stato abbandonato.
Oggi chi è venuto a trovarsi impegolato in una situazione senza
uscita, chi ha dovuto subire labilità
dialettica del suo contraente o contraddittore, o ritiene di essere stato
un poco raggirato e soverchiato dice: "mhann faa sù"
È
un detto vecchiotto, ma espressivo. Per comprenderlo, bisogna ricordare
che fino allinizio del secolo la gente ricca aveva la carrozza e
nella Milano di ottantanni fa sincontravano dignitose carrozze
private, generalmente chiuse, che procedevano al trotto misurato di un
cavallo daspetto fiero, guidato da un impeccabile cocchiere, col
cilindro in testa. Fra i ricchi, nella fantasia popolare, il proprietario
di casa, "el padron de cà", lo era per antonomasia. Viveva
"de entrada", ossia di rendita, e non doveva mai correre o scapicollarsi
come un tapino. Linsieme pittoresco di questi elementi estetici
ed economici che vanno dalla tranquillità che lagiatezza
infonde (o almeno infondeva) al decoroso aspetto della carrozza, al trotto
contenuto del cavallo, veniva fuso e sintetizzato dal popolino dicendo
che quel cavallo e relativa carrozza signorile andavano...
"a pass de padron de cà ".
Oggi, cavalli non se ne vadono più, ma il detto è rimasto
in qualche buon milanese che quando parla di persona agiata, che vive
comodamente, può ancora esclamare: "el ghha on pass
de padron de cà"
Ofelee
fà l tò mestee
Ofelee, a
Milano, è il pasticciere e mestee vuol dire mestiere. Pasticciere
fa il tuo mestiere, sarebbe dunque la traduzione letterale di questo detto,
che nel linguaggio popolare è tuttavia usato quando si vuole invitare
una persona a desistere da compiti che non gli spettano o ai quali non
è preparato.
È il richiamo bonario a fare le cose che si sanno fare, a non improvvisare,
a non mettersi in cattedra quando si dovrebbe stare sul banco.
I milanesi amano le cose concrete, precise, non hanno simpatia per
i faccendieri che improvvisano tutto e quando vedono qualcuno che si accinge
a un lavoro che non è il suo, lo richiamano alla realtà
dicendogli: "Ofelee, fà l tò mestee".
Suruch
È
la pronuncia milanese dellavverbio tedesco zurück che significa
"indietro" ed ha unorigine storica, perché risale
ai tempi della dominazione austriaca.
I soldati e la polizia dellepoca, quelli che il popolo chiamava
croatt a ragione del loro reclutamento, erano soliti intimare "zurück,
zurück" alla gente, ossia "indietro, indietro", quando
vi erano cortei o manifestazioni.
E il popolo, che male sopportava questi soldati stranieri, incominciò
col chiamare suruch le persone sciocche, grossolane e zuccone.
Ancora un po di tempo fà, magari da parte di qualche tassista
meneghino capitava di sentir rivolgere
il poco delicato epiteto di suruch nelle discussioni che sorgevano per
la precedenza agli incroci. Bei tempi.
Lavorà
per la Gesa de Vaver
Letteralmente:
lavorare per la chiesa di Vaprio dAdda, e poichè questa chiesa,
secondo la tradizione, è stata costruita con prestazioni gratuite
dei benemeriti cittadini di quella borgata, i milanesi usano tale detto
per indicare un lavoro che dà merito, ma non dà denaro.
In ogni caso lo si dice di un lavoro che per se stesso ha una sua dignità,
che risponde magari a nobili sentimenti, mai in senso dispregiativo.
Ona
dònna de conclusion
Sulle donne
i detti sono molti, anche in milanese, quindi vogliamo ricordare questo
vecchio aforisma, chè sintetico e colorito.
Quando infatti i vecchi milanesi volevano indicare una donna valente,
meritevole di stima e di considerazione, una di quelle donne che contano,
nella famiglia e nella società, per i loro aspetti positivi, erano
soliti dire: "lè ona donna de conclusion!".
E in queste poche parole vi era la sintesi di tanti apprezzamenti positivi
che sarebbe difficile descrivere con una perifrasi, ma che sintendono
attraverso la laconica e penetrante capacità espressiva del detto.
Vantes
cavagna chel manegh lè ròtt
Accade sovente
a tanti di noi di vantare un nostro merito, magari un successo, senza
avvederci di un grave difetto che affianca quel merito o di uno svantaggio
che annulla il successo.
Larguzia milanese ha sintetizzato con un detto colorito questa situazione
immaginando un cesto (cavagna) che si vanta per la propria capienza o
comunque per i propri requisiti, senza badare al manico, chè
rotto e rende il cesto inservibile.
Così, se un ambrosiano sente una vanteria che giudica stonata
o ingiustificata, dirà sorridendo:
Vantes
cavagna, chel manegh lè rott.
Il polìn
è il tacchino, e chi non si limita a gustarlo arrosto, ma lo osserva
quando gira sullaia, sa benissimo che questo pingue pennuto, se
si vede osservato, erige maestosamente la coda quasi per dimostrare la
sua importanza e anche la sua bellezza. Da questa vanità del tacchino
deriva il detto "on defà de polìn" ossia far mostra
di sè, pavoneggiarsi, specialmente fingere di avere un importante
lavoro, ma in concreto non combinare nulla.
Il detto è antico, ma è sempre di attuale, perché
di tacchini che fanno la ruota e di vanitosi che si danno importanza e
non concludono niente se ne incontrano tutti i giorni.
Andà
per rann
Le rane,
cibo delicato e in passato molto ghiotto per i milanesi, si prendono di
notte costeggiando fossati e ruscelli al lume di una piccola lanterna;
appena ghermite, vengon riposte in un cestone o in un sacco, poi finiscono
nel risotto o in guazzetto oppure in frittata.
È intuitivo che loperazione avviene un poco a tentoni,
alla luce fioca della lucerna; perciò si suol dire "andà
per rann" letteralmente andare a pesca di rane quando
si brancola nel buio, magari metaforicamente, e si procede lentamente,
con incertezza.
Fà
san Michee
La festa
di san Michele Arcangelo ricorre il 29 Settembre e nei tempi passati coincideva
con la tradizionale scadenza dei contratti di affitto delle case di Milano.
Accadeva perciò sovente che il 29 Settembre, scaduto un contratto,
una famiglia lasci lalloggio che occupava e si trasferiva in un
altro.
Da questa consuetudine, tipicamente milanese, è venuto il detto:
Fà
san Michee, che in senso figurato significa traslocare, sgomberare una
casa di ogni suppellettile e andarsene, con le cose e..... con i ricordi,
in un altro alloggio.
Bòtt
de legnamee
Il rapporto
fra i bòtt, che sono le busse, e i legnamée, che sono i
falegnami, è probabilmente legato allimmagine del bastone.
Sta di fatto che a Milano, quando si vuol descrivere una ridda di busse
o si vuol dire che un malcapitato è stato duramente percosso.
Si ricorre ancora a questa antica immagine e si dice: "ghann
daa bòtt de legnamee".
Se
la và..... la gha i gamb!
Capita sovente
nella vita, negli affari, di trovarsi di fronte al dubbio se una impresa,
un tentativo abbia o meno possibilità di successo. Sia per le piccole
cose, come per le iniziative più importanti, lincertezza
dellesito è caratteristica comune delle nostre azioni.
Talvolta nel misurare la possibilità di un risultato positivo occorre
lesperienza, o lintuito, spesso il caso e la fortuna decidono
lincontro di concidenze felici.
Perciò, scherzosamente, quando un milanese tenta una iniziativa
che sulla carta non ha molta probabilità di riuscita, che è
magari spericolata ma col buon vento della fortuna può andar bene,
dice filosoficamente: "se la và...la gha i gamb!".
Letteralmente
questo detto significa:
"Se và ha le gambe", ma in senso traslato vuol dire:
"se mi riesce, lho azzeccata, sono fortunato".
Var
pussee la tòlla de lòr
Questo vecchio
detto ha una sua attualità intramontabile. La tòlla è
la latta, merce di valore evidentemente inferiore alloro. Ma in
milanese "faccia de tòlla" vuol dire faccia tosta, improtitudine
e anche ardimento nel sostenere le proprie azioni.
Il detto "vâr pussée la tòlla de lòr",
che letteralmente vuol dire: val più la latta delloro, ha
un suo profondo significato metaforico, perchè vuol insegnare che
il coraggio, la disinvoltura, il sapersi fare avanti rende talora più
della ricchezza.
Lespressione viene usata sovente in senso scherzoso e indulgente
(congeniale alla bonomia ambrosiana), altre volte però la si usa
anche per manifestare un giudizio piuttosto severo su contegno
sfrontato di una persona.
Ona
faccia de spend pòcch |
|
Il modo di
procurarsi le cose che si desiderano senza spendere è quello di
rubarle. Da questa considerazione ovvia e antica viene il detto milanese
"el gà ona faccia de spend pòcch" che letteralmente
si dovrebbe tradurre "ha la faccia di chi vuol spendere poco".
A Milano si usa per indicare una persona maligna, poco rassicurante,
che se ladro non è... poco ci manca.
Mandà
giò cadènn
Limmaginazione
del popolo, che di amarezze e dolori se ne intende, ha raffigurato nellattegiamento
di chi debba ingoiare catene la sofferenza di chi deve mandar giù
bocconi amari, uno dopo laltro, in una successione continua e inesorabile
come gli anelli di una catena. Ogni anello è un nodo in gola da
inghiottire, appena ingoiato subito un altro, e il mento si protende,
la gola soffre la dolorosa deglutizione.
Il poveraccio che patisce dolori e umiliazioni con estenuante continuità
sembra dice il popolo milanese condannato a ingoiare catene,
a mandà giò cadènn.
Ona
ciocca de latt
La ciocca
è quella che nel gergo si chiama la sbronza, ossia una ubbriacatura
di una certa consistenza, che supera leuforia nella quale si cade
magari alla fine di un pranzo generosamente inaffiato, e riduce il bevitore
a mal partito. Ma per prendere una ciocca ci vuole il vino, non la si
prende col latte che non dà ebbrezza.
Una ciocca de latt è dunque impossibile, è una cosa irrealizzabile,
inconsistente. Perciò, i milanesi quando devono indicare una cosa
di poco valore, ricorrono a questa pittoresca immagine.
Ogni
fioeu el sò cavagnoeu
Il cavagnoeu
è in milanese il canestrino, nel quale un tempo si riponevano le
vivande. Quando nasce un bambino in una famiglia è un momento di
festa, ma dallanimo popolare non è alieno un vago senso di
preoccupazione che insidia sempre i poveri in ogni momento della vita.
Per fugare queste preoccupazioni nel giorno lieto di una nascita, a Milano
si dice "Ogni fioeu, el so cavagnoeu", quasi per ammonire
che ogni bambino reca con sè il suo pizzico di fortuna, che aiuterà
lui ed i suoi a tirare avanti.
È una espressione tipica dellottimismo popolare, chè
buona caratteristica degli ambrosiani.
Consciaa
mel strasc del moletta
Il moletta
è larrotino, quello che un tempo girava le strade di Milano
col carretto fermandosi ad arrotare coltelli e forbici, man mano che gli
venivano affidati per "ona molada". Larrotino soleva ripulire
le lame in uno straccio che penzolava dal carretto ed era sempre sudicio
e tagliuzzato.
Moletta per le vie di Milano ormai non se ne vedono quasi più,
ma se ne vedete qualcuno, prima de fà fà ona molada chiedete
un preventivo (lo diciamo per esperienza). Ad ogni modo il detto è
sopravvissuto per indicare chi è mal ridotto e poco presentabile:
Son pròpi consciaa mel strasc del moletta.
Và
a onges
Questo motto
milanese un poco ruvido e apertamente sgarbato, trae le sue origini da
un fatto veramente singolare. "Và a onges", letteralmente
va a ungerti, è usato nel gergo popolare di Milano per mandare...
al diavolo una persona poco gradevole e che non sopportiamo più.
Lorigine del detto risale alle pestilenze di manzoniana memoria
e alla credenza antica che la peste si prendesse a causa di certi misteriosi
unguenti malefici che dei malvagi spargevano sulle porte, sui muri, sulle
cose. Tutti ricordano i processi agli "untori" e il caso clamoroso
di Gian Giacomo Mora che il Manzoni racconta nella "Storia della
colonna infame".
Dunque "Và a onges" vuol dire vai a prenderti la peste:
francamente come invettiva è parecchio violenta, ma è anche
singolarmente originale.
Pacifich...come
on trè lira |
|
Nei tempi
passati per intenderci, quando Milano stava tutta entro la vecchia
cinta daziaria, che passava da Porta Venezia a Porta Monforte (oggi piazza
Tricolore) e Porta Vittoria (oggi Piazzale Cinque Giornate), dove i caselli
ci sono ancora) e via dicendo un impiegato che riscuoteva uno stipendio
di novanta lire al mese aveva una buona posizione. Novanta lire il mese
erano tre lire il giorno, ed era questa una somma che garantiva vita pacifica
e avvenire sereno.
Da
questa realtà economica è venuto il detto "Pacific...
come on trè lira" che si usa per indicare una persona tranquilla,
che non ha preoccupazioni, che vive con un certo agio, come poteva vivere,
tanti anni or sono, chi guadagnava tre lire al giorno.
Var
pussee on andà, che cent andemm
Questo detto
antico, ancora attuale e largamente in uso, è fra i più
rivelatori del carattere dei milanesi, della loro intraprendenza, vivace
fino alla inquietudine. Tradotto letteralmente significa: "val più
andare, che dire: andiamo". Ma il testo milanese racchiude in sè
due concetti, gustosamente riuniti. Il primo è che lazione
è sempre preferibile alle titubanze (è meglio muoversi,
che discutere di muoversi) ed il secondo concetto è insito nellaccento
individualistico espresso dallandà, contrapposto al plurale
dellandemm. Dunque meglio agire da soli, che aspettare di agire
in compagnia di altri.
Per chi conosce Milano, il coraggio delle sue iniziative e la sua costante,
individualistica spinta alle realizzazioni
più ardite, sarà facile ammettere che questo vecchio detto
interpreta lautentico spirito milanese.
Quand
el còrp el se frusta, lanima la se giusta
La giovinezza,
felice stagione della vita umana, non è tempo di penitenza, è
piuttosto diciamolo senza ipocrisia momento di peccato.
Poi, con gli anni, con lesperienza, aggiungiamo, spenti i primaverili
entusiasmi e pacato il giovanile vigore, gli uomini diventano più
quieti, più savi e talora accade persino che diventi modello di
virtù colui che nei verdi anni non lo era affatto.
Da questa parabola che lumanità quasi sempre percorre
con particolare puntualità larguto popolo ambrosiano ha tratto
il detto "quand el còrp el se frusta, lanima la se giusta",
che vuol dire: quando il corpo invecchia, lanima si ravvede. Non
è un detto cinico, è umano.
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